Vajont, il monumento all'avidita' umana
A due passi da Cortina il paesaggio non e' piu' al suo posto. 40 anni dopo il disastro, lungo un itinerario in cui si perdono le proporzioni dello spazio e del tempo
Una storia tanto semplice quanto drammatica. Una diga progettata in un luogo inadatto, ripetuti e inascoltati segnali dallarme e il monte Toc che precipita nel lago artificiale. Longarone è spazzata via assieme a 2000 persone.
Sono passati quasi 40 anni dalla tragedia del Vajont, ma non è possibile dimenticare. La diga che allora fu considerata un capolavoro di ingegneria, è rimasta al suo posto unendosi indissolubilmente a milioni di metri cubi di terra e trasformandosi in un monumento di oltre 260 metri in memoria dellavidità umana.
Dove siamo? Cortina è là, a due passi. I turisti che transitano per Longarone, per raggiungere la perla delle Dolomiti, non possono non vedere la diga, incastrata nella gola rocciosa. Ma per rendersi davvero conto di cosa successe, per capire che dopo il disastro nulla è rimasto al suo posto tranne la diga, è necessario deviare di qualche km dalla strada principale (seguire le indicazioni per Pordenone allingresso del paese) e inerpicarsi un poco sulla montagna. La strada, con i suoi tornanti, sale rapidamente e passate alcune gallerie siamo già sopra la diga.
Qui, dove ci si aspetterebbe di trovare un bacino artificiale, conviene fermarsi. Cè una piccola cappella in ricordo di quanti morirono e lacqua non è al suo posto. Dove cera il lago ci sono milioni di metri cubi di detriti. Ritornando a piedi per la strada appena percorsa, si può vedere da vicino la grande diga e la gola spaventosa nella quale sincanalò londa di morte. Neppure la terra su cui si sta camminando è al suo posto. La terra era lì, sul monte Toc di fronte a noi, proprio dove adesso cè una "M".
Non occorre essere geologi per capire che quella "M" è la grande ferita da cui si staccò la frana. E sembra impossibile che si sia potuta spostare, ma lo fece.
Rimontiamo in macchina. Anche la strada non è al suo posto. La vecchia non cè più e quella nuova si insinua tra i massi e la terra che 40 anni fa era da unaltra parte, molto più in alto.
Sulla sinistra notiamo una palestra di roccia che riflette il carattere forte degli abitanti di questa valle. Ancora qualche centinaio di metri e sulla sinistra troviamo il bivio per Casso, il paese parzialmente salvato proprio dalle rocce che poco più sotto abbiamo ammirato. Anche gli abitanti di Casso, come quasi tutto nella valle, non sono al loro posto: il paese è semi abbandonato, ma noi scendiamo dallauto e camminiamo percorrendolo tutto. Il percorso non è faticoso. E un sentiero facile facile, ma qui non arriva molta gente, tutti si fermano in basso. Così superiamo la chiesa e continuiamo per il sentiero in costa che ci conduce sopra la diga. Vicino alla diga, dove eravamo poco fa, si perdono le proporzioni visive. Ma venendo fin quassù, percepiamo quelle proporzioni che poco più sotto apparivano falsate. Ora è più facile immaginare cosa successe quella notte del 9 ottobre 1963. Ora facciamo silenzio.
Sono passati quasi 40 anni dalla tragedia del Vajont, ma non è possibile dimenticare. La diga che allora fu considerata un capolavoro di ingegneria, è rimasta al suo posto unendosi indissolubilmente a milioni di metri cubi di terra e trasformandosi in un monumento di oltre 260 metri in memoria dellavidità umana.
Dove siamo? Cortina è là, a due passi. I turisti che transitano per Longarone, per raggiungere la perla delle Dolomiti, non possono non vedere la diga, incastrata nella gola rocciosa. Ma per rendersi davvero conto di cosa successe, per capire che dopo il disastro nulla è rimasto al suo posto tranne la diga, è necessario deviare di qualche km dalla strada principale (seguire le indicazioni per Pordenone allingresso del paese) e inerpicarsi un poco sulla montagna. La strada, con i suoi tornanti, sale rapidamente e passate alcune gallerie siamo già sopra la diga.
|
Non occorre essere geologi per capire che quella "M" è la grande ferita da cui si staccò la frana. E sembra impossibile che si sia potuta spostare, ma lo fece.
Rimontiamo in macchina. Anche la strada non è al suo posto. La vecchia non cè più e quella nuova si insinua tra i massi e la terra che 40 anni fa era da unaltra parte, molto più in alto.
Sulla sinistra notiamo una palestra di roccia che riflette il carattere forte degli abitanti di questa valle. Ancora qualche centinaio di metri e sulla sinistra troviamo il bivio per Casso, il paese parzialmente salvato proprio dalle rocce che poco più sotto abbiamo ammirato. Anche gli abitanti di Casso, come quasi tutto nella valle, non sono al loro posto: il paese è semi abbandonato, ma noi scendiamo dallauto e camminiamo percorrendolo tutto. Il percorso non è faticoso. E un sentiero facile facile, ma qui non arriva molta gente, tutti si fermano in basso. Così superiamo la chiesa e continuiamo per il sentiero in costa che ci conduce sopra la diga. Vicino alla diga, dove eravamo poco fa, si perdono le proporzioni visive. Ma venendo fin quassù, percepiamo quelle proporzioni che poco più sotto apparivano falsate. Ora è più facile immaginare cosa successe quella notte del 9 ottobre 1963. Ora facciamo silenzio.
|